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 La fiducia (sul seminario della Origgi)
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Cateno
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Città: Regalbuto


169 Messaggi

Inserito il - 13/06/2006 : 11:07:26  Mostra Profilo Invia a Cateno un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Io non mi intendo molto né di logica né di epistemologia, dacché non sono strettamente il mio ambito, e forse per questo sono troppo poco filosofo. Tuttavia, al seminario ho ascoltato Gloria Origgi; purtroppo, però, per questioni di orario di autobus, non ho potuto ascoltare che i primi cinque minuti di Sperber.
Dunque anch'io dirò qualcosa solo a proposito di Origgi, della quale, tra l'altro, non ho ancora potuto leggere l'articolo.
Ad ogni modo, alla fine del seminario, mi son detto: "Beh, tutto sommato non mi pare che si sia detto qualcosa di nuovo"; forse sono troppo drastico nel mio giudizio e Giovanni, come mi disse quel giorno stesso, non si troverà molto d'accordo con me, ma mi è parso che, a parte la correttezza e la pregnanza dei riferimenti ai filosofi che di questi temi si sono occupati, a parte questo, dunque, non si sia andati al di là della comune ovvietà.
Non so... Però spesso mi sono trovato a pensare: "Sì, so che è così, che avviene questo; ma perché?" Oppure: "dovrei ridurre la fiducia che ripongo in qualcun altro a semplice calcolo probabilistico? Uhm... Ma visto che parliamo di pragmatica, chiediamoci: davvero facciamo così nella vita di tutti i giorni?".
Inoltre non ho ben capito la distinzione tra l'epistemologia del quotidiano e l'epistemologia scientifica, quasi che esistesse un Homo Cotidianus e un Homo Scientiae; capisco che magari in ambiti scientifici qualche volta non ci si attenga alla chiacchiera, ma se da un lato l'epistemologia contemporanea riconosce la necessità della credenza, di quello che una volta era chiamato pre-giudizio, come può dall'altro lato sdoppiare la pragmatica della fiducia? Come se non fosse tutto nient'altro che un pre-giudizio per cui andiamo costantemente alla ricerca di conferme! Certo, questa frase sembra solo una provocazione, ma intendo darle un senso che vada al di là dell'aforisma petulante.
Dunque, partiamo da questo dogma: non si può non comunicare. Io lo ritengo falso. Di solito a sostegno si portano esempi del tipo: si capisce molto da come si è vestiti, da come ci si muove, da ciò che si dice o non si dice e così via. Tutto vero, per carità. Ma chi lo capisce? Io stesso? No, altrimenti che comunicazione sarebbe. Allora il mio interlocutore. E se costui non vuol capire? Se io passo per strada in mezzo a tanti altri, cosa comunico? Se gli altri non vogliono entrare in relazione con me, anche solo guardandomi, cosa comunico? Posso vestirmi come voglio, dire quello che voglio, fare quello che voglio; ma se chi mi sta di fronte non vuol sapere o capire niente non comunico un bel niente. Dunque si deve essere almeno in due per comunicare ed entrambi con l'intenzione che ci sia una comunicazione. Ma anche quando fossimo in due, cosa è la comunicazione? Io parlo, io siedo, io sono vestito così e sto in questa posizione ed il mio interlocutore percepisce, elabora, comprende. Ma cosa? Quello che io dico o faccio o sono? Ma come? Elaborando tramite alcune sue strutture culturali, linguistiche, probabilisitiche? Beh, forse sì. Ma cosa rimane della calda comunicazione? Schemi, strutture, calcoli? Scheletri? Ma davvero è questa la pragmatica della comunicazione? Ma, se è vero che non può esserci fidcuia senza comunicazione, davvero sono questi i presupposti di una pragmatica della fiducia?
Pur di fronte a "ipotesi matematiche" accurate e più semplici, si pensò bene di non dare ascolto a Galilei; beh, erano forse questioni di potere. Ma a mio nonno come lo spiego che si è dimostrato che la carne lasciata fuori non sviluppa i vermi in quella che è chiamata generazione spontanea? Come dire a mia mamma di non credere al "curtigghiu", ai pettegolezzi che vorrebbero incinta la figlia del tale, anche se questi pettegolezzi sono probabilisticamente sbagliati al 90%?
Tutto è un pre-giudizio perché tutto è cultura: la linguisticità è intrisa di essere-nel-mondo. L'esitenza quotidiana supera i calcoli. Se ni ci fidiamo è perché la fiducia è antropologica: è necessaria per vivere, per stare con gli altri, per egoismo, se volete. L'uomo non è credulone, ma sa esserlo meglio di chiunque altro.
Il compito assegnato a noi filosofi è trascorrere dalla Doxa alla Epistème; altrimenti Spinoza, L'illuminismo, persino Kant ed Hegel (col suo rimuovere, in un movimento che toglie ma non cancella; che illumina, verrebbe da dire) sarebbero vani e vane l'esistenza a questo punto credulona.

Finché non lo fai tuo,/ questo "muori e diventa",/ non sei che uno straniero ottenebrato/ sopra la terra scura. (J. W. Goethe)
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