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 Mente & Cervello 36 – dicembre 2007
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Biuso
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Inserito il - 15/12/2007 : 11:29:37  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di Biuso Invia a Biuso un Messaggio Privato  Rispondi Quotando



Lo abbiamo detto tante volte: non l’encefalo soltanto ma è l’intero corpo che pensa, «i movimenti corporei non aiutano soltanto a esprimere pensieri che in precedenza non si riusciva a verbalizzare, ma anche a “pensare meglio”» (M&C 36, pag. 24). E anche per questo sono assai discutibili le tesi di chi ritiene essere il pensiero autonomo dalla lingua. Secondo Bernard Thierry, le scienze cognitive avrebbero dimostrato tale autonomia e la prova starebbe nelle capacità di comunicazione dei primati non umani e di altri animali. Ma è chiaro che tali creature sanno comunicare e in questo senso sono dotate di linguaggio/pensiero. Ferdinand de Saussure, però, ha giustamente distinto il linguaggio dalla langue (lingua) e dalla parole. Il pensare umano implica il possesso di tutte e tre queste abilità: comunicazione, codici articolati in sintattica e semantica, utilizzo concreto e personale dei codici. Distinzione analoga, se si vuole, a quella tra tipi e occorrenze.

Lo conferma anche un interessante articolo di Barry Schwartz dedicato all’influsso che il linguaggio ha sulle nostre scelte, nel senso che il modo in cui viene presentata un’alternativa è determinante sulla decisione presa (tutti preferiscono un hamburger magro al 75 per cento piuttosto che uno grasso al 25 per cento; peccato che si tratti dello stesso hamburger…). Non basta la sintassi, quindi, e neppure la semantica ma è necessaria la dimensione pragmatica della vita: «quando valutiamo qualcosa, siamo alla mercé del contesto» (63); «a dispetto della logica cartesiana che separa l’invisibile mentale dal visibile materiale, l’intelligenza non è riducibile ad una funzione racchiusa nel cervello; i comportamenti risultano dalle interazioni degli individui con l’ambiente» (Thierry, 87).

Molto interessante è il resoconto di Patrick Barriot a proposito delle «droghe del dominio», le sostanze in grado di sottomettere un soggetto alla volontà di un altro, di fargli compere determinate azioni e di cancellarne poi il ricordo. La natura corporea dei pensieri e della memoria riceve ulteriori conferme dalla possibilità del controllo chimico, che è presente anche in altre specie. Un parassita del grillo, ad esempio, riesce a secernere delle molecole che inducono il grillo a gettarsi in acqua –ambiente necessario allo sviluppo delle larve del parassita- facendolo annegare…

È anche sul fondamento di questa fisicità profonda del vivente che dovrebbe ricevere luce il problema millenario e fondamentale del libero arbitrio, al quale è dedicato il più interessante degli articoli di questo numero. Testo che mostra come alcune risposte della filosofia abbiano chiarito da secoli il problema. Dennis Overbye comincia con l’ammettere che al ristorante davanti a un tortino al cioccolato il suo libero arbitrio venga meno e la scelta diventi obbligatoria ma poi aggiunge: «Che importa se le nostre azioni sono determinate? Noi non sappiamo quali saranno finché il cameriere non avrà portato il menù» (73). E tuttavia questo ragionamento altro non è che la conferma di un principio spinoziano: «proprio questa è quell'umana libertà, che tutti si vantano di possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto e ignari delle cause da cui sono determinati. Così il bambino crede di desiderare liberamente il latte; il fanciullo rissoso la vendetta, e il timido la fuga L'ubriaco crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che poi da sobrio preferirebbe di aver taciuto. Così il delirante, il chiacchierone e molti altri di simil risma credono di agire di libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in ogni uomo è difficile liberarnelo» (Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, 1974, Ep.LVIII, pp.248-249).

Tra le citazioni che corredano l’articolo, ce n’è una di Schopenhauer: «L’uomo è libero di fare ciò che vuole, ma non di volere ciò che vuole» (72). Il problema chiave è proprio qui: pochi o nessuno mettono in discussione la libertà umana di fare ciò che vogliamo; il punto è se siamo anche liberi di volere ciò che vogliamo. Noi possediamo la prima forma di libertà (l’actus imperatus) ma non la seconda (l’actus elicitus). Questo è il senso della distinzione spinoziana fra libertà e costrizione: chiamiamo libere quelle azioni che non sono ordinate da una potenza esterna ma vengono imposte dalla natura stessa dell’agente. Azioni che rimangono in ogni caso determinate. Neppure il riferimento al principio quantistico di indeterminazione può soccorrere. Esso, infatti, non vale al livello macroscopico e cioè a quello delle esistenze dei corpi. È davvero implausibile «che l’intera catena di causa ed effetto nella storia dell’universo si arresti di colpo mentre ci fermiamo a riflettere di fronte al menù dei dolci» (69); anche Overbye ammette che quello del libero arbitrio è un principio di tipo morale (moralistico, secondo me) e non certo scientifico o metafisico e così conclude il suo testo: «In fin dei conti potrei rinunciare al tortino di cioccolato. Davvero potrei. Ma che se ne importa? Cameriere!» (73)

Non sono quindi gli astri o il destino cinico e baro a influenzarci (interessanti i due articoli dedicati all’astrologia e alla sua implausibilità) ma il soma/demone che noi stessi siamo.


agb
«Piante e bestie recano i segni della salvezza come l'uomo quelli della perdizione»
(Cioran)
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