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Cateno
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Inserito il - 19/10/2005 : 18:03:21
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In un saggio dall’eloquente titolo “Passato, memoria, oblio” (chi ha studiato l’ultimo corso di fdm lo conosce bene) Paul Ricoeur analizza “le aporie seguenti, che riguardano la problematica della memoria, al punto da farla apparire costituita dalle sue stesse aporie”. Le tre aporie brillantemente prese in considerazione riguardano: la memoria come esperienza individuale e la sua caratterizzazione immediatamente sociale; l’assenza dell’oggetto ricordato e perciò i rapporti tra l’immaginazione (qualcosa cioè che rappresenta un oggetto senza che questo sia presente e non vi aggiunge il momento temporale) e la memoria (anch’essa basata sull’assenza, ma che pretende di essere fedele ad un passato, a qualcosa che “c’è stato”); infine, come può essere che talvolta si deplori l’eccesso di memoria, talaltra il suo difetto. Ebbene, senza nulla togliere alle sapienti analisi di Ricoeur, v’è un’altra aporia che, in un certo senso, sta alle spalle di tutte queste: detto in un senso esistenziale, la memoria è di qualcosa che ci appartiene ancora o di qualcosa che non ci appartiene più? Aristotele, citato non a caso da Ricouer nel sullodato saggio, nota che: “ogni cambiamento è per natura ekstatico, distruttore [in quanto fa “uscire da sé”]; ed è nel tempo che tutto è generato e distrutto”. Facendo riferimento a questa frase di Aristotele e forse tradendone gli scopi, giacché egli quando parla della distruzione si riferisce all’oblio, chiarisco meglio l’aporia che m’interessa: poiché possiamo ricordare ciò che è passato, questo ci appartiene ancora; parimenti, proprio perché lo ricordiamo esso non ci appartiene più. Il ricordo è ora; ciò che è ricordato non è più eppure in un certo qual modo è ancora. Non mi può appartenere qualcosa che non è più; ciò che è passato è perso per sempre, scivola via via sempre più lontano; sprofonda, per parafrasare Husserl, proprio come un oggetto quando ci si allontana spazialmente da lui. Consideriamo questo particolare ricordo (lo scelgo perché credo che tutti possano ricordarlo facilmente; se non lo ricordate, beh, spero che sia perché non lo abbiate ancora vissuto!): il primo bacio che avete dato a una vostra innamorata (o un vostro innamorato; uso il femminile per comodità). Ricordo perfettamente quel bacio; ricordo il luogo, la mia posizione, la sua, i suoi occhi, la membra che vibravano, il petto che si emozionava, la luna tra gli alberi e altre siffatte sdolcinate romanticherie da innamorati (non temete, dico così solo per vanto letterario; poi sono il primo ad abboccare!). Ebbene, io quel bacio non lo ho più; non mi appartiene più, è stato tanto tempo fa; io sono cambiato, con quella ragazza quasi neanche ci salutiamo o chissà dov’è finita; quel bacio è andato distrutto dal tempo poiché il tempo ha distrutto quello che ero, il tempo ha generato e distrutto quel bacio e ciò che a quel bacio era attorno. Tuttavia, quel bacio mi appartiene; è mio, ero io e ancora lo ricordo con dolcezza e, perché no, con nostalgia; è in me, è inciso nella mia carne, impresso nella mia mente; mi appartiene. Solo perché mi appartiene posso dire che è “il mio primo bacio”; tuttavia esso davvero non c’è più. E come può appartenermi qualcosa che non c’è? Distinguiamo: il ricordo mi appartiene senza dubbio! Ma il contenuto del ricordo? Mi appartiene? O forse proprio perché non mi appartiene posso ricordarlo? Ma se non mi appartiene, allora come potrebbe essere mio? Permettetemi di riportare per intero una poesia tra le più riuscite di Vincenzo Cardarelli; si intitola “Passato”:
“I ricordi, queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo, questo strascico di morte che noi lasciamo vivendo, i lugubri e durevoli ricordi, eccoli già apparire: melanconici e muti fantasmi agitati da un vento funebre. E tu non sei più che un ricordo. Sei trapassata nella mia memoria. Ora sì, posso dire che m’appartieni e qualcosa fra di noi è accaduto irrevocabilmente. Tutto finì, così rapido! Precipitoso e lieve il tempo ci raggiunse. Di fuggevoli istanti ordì una storia ben chiusa e triste. Dovevamo saperlo che l’amore brucia la vita e fa volare il tempo.”
Ecco, il dato saliente per il nostro discorso è questo: solo perché l’amata è divenuta un ricordo il poeta può dire che gli appartiene e che qualcosa tra loro è accaduto irrevocabilmente. Irrevocabilmente! Qui pare addirittura che sia ribaltato ogni assunto filosofico per un possibile fondamento di gnoseologia: per la tradizione filosofica, solo il presente, il questo-qui, il fatto che adesso si dia un pensare o comunque un’attività dell’io può essere a fondamento di una realtà della conoscenza. Addirittura Husserl fa notare che la trascendenza (cioè l’esistenza al di fuori del soggetto) della natura è problematica se si fa riferimento a qualcosa di diverso della percezione presente, ancora una vola del questo-qui. Per la filosofia occidentale, il passato è il duro scoglio sul quale si infrange la barca della conoscenza; la conoscenza è già problematica per quel che riguarda il presente; quando si misura con il passato l’epoché pare inoltrepassabile! In questa poesia, come dicevo, tutto è capovolto: solo perché qualcosa è un mio ricordo allora posso dire che è reale, che m’appartiene e che qualcosa è accaduto addirittura irrevocabilmente, col carattere cioè di una necessaria fissità immodificabile: è accaduto così e basta. Forse il passato è la chiave d’accesso alla necessità! Per i nostri scopi è bene notare anche un’altra cosa: solo ciò che è passato e precisamente ciò che è un ricordo m’appartiene. Innegabile è però anche l’intervento di una forza precipitosa e lieve: il tempo. Ancora secondo Aristotele, la memoria è del tempo. Solo con l’irrompere del tempo, col finire, col chiudersi di una storia, qualcosa può divenire un ricordo. Pare allora che il ricordo sia un fissare, un “ben chiudere” una qualche storia ordita con fuggevoli istanti; un fissare che solo rende possibile il farci appartenere qualcosa di altrimenti non appartenenteci. Si può dire così che qualcosa di in sé non appartenenteci si faccia di nostra appartenenza non appena divenga ricordo. Il ricordo sarebbe così l’appartenenza a chi ricorda del non-appartenente. Forse è anche su questo che è fondato il ricordo come appartenenza a me medesimo. Io che non sono più com’ero prima, io che non vivo le stesse cose di prima, che non ho più qui davanti le cose di prima, io che, in definitiva, ero e non sono più quello che ero e perciò non mi appartengo più, posso però appartenermi, farmi cioè appartenere questa inappartenenza e riconoscermi come me stesso in tempi diversi, solo grazie al ricordo.
Caspita, è un ragionamento complicato. Spero non me ne vogliate e mi auguro che sia almeno stato piacevole oltre che utile.
L'esistenza è un episodio del nulla (Schopenhauer)
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Biuso
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Inserito il - 22/10/2005 : 15:39:01
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quote:
Ebbene, senza nulla togliere alle sapienti analisi di Ricoeur, v’è un’altra aporia che, in un certo senso, sta alle spalle di tutte queste: detto in un senso esistenziale, la memoria è di qualcosa che ci appartiene ancora o di qualcosa che non ci appartiene più?
Sempre complessi ma interessanti i ragionamenti di Cateno…Ottimo poi l’aver citato quel grande poeta che è Cardarelli.
Provo comunque a dare una telegrafica risposta all’aporia indicata, chiedendo l’aiuto di due colleghi e poi aggiungendo qualcosa di mio.
1. In un suo bel libro, Valerio Meattini afferma che «è proprio quel che abbiamo perduto che portiamo intimamente con noi: nulla esce da noi senza penetrarvi ancor più intimamente» (Filosoficamente abita l’uomo. Etica e conoscenza, Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 2005, pag. 40). Meattini si riferisce proprio alla memoria, nella forma dei legami che ci uniscono anche alle persone, alle cose, alle situazioni che per una ragione o per l’altra non possiamo più esperire nel presente ma che non per questo si sono separati da noi, anzi…
2. Nel suo volume più recente, Giuseppe Raciti enuncia una tesi tanto raffinata quanto plausibile. Egli distingue fra immagine e figura. La prima è ciò che rimane nella mente di qualcuno di una persona che non ci sia più o che ora sia assente. La seconda è un volto che abbiamo davanti. Risulta chiaro che «si dà immagine solo di ciò che è invisibile» (Cinque scritti delfici, La Finestra, Trento 2004, pag. 87), e cioè di qualcuno la cui figura una volta abbiamo visto e che adesso ci è dato –ma ci è dato!- nella forma di un’immagine della memoria.
3. Come ben sa, io ritengo che mente e corpo siano due aspetti della medesima realtà temporale. Una delle differenze che rendono dinamica questa realtà profondamente unitaria riguarda proprio la percezione del tempo e quindi la memoria. La mente, infatti, dimentica, deve dimenticare per poter accumulare altri temp-ora, per rimanere aperta al futuro, alle sue protenzioni, alle attese che danno senso alla vita. Il corpo, invece, non solo non ha bisogno di oblio ma cresce attraverso lo scambio costante con il flusso del tempo in cui è immerso e in cui consiste, per questo il corpo non dimentica nulla, non dimentica i momenti esaltanti che gli hanno dato forza, non dimentica le sofferenze che gli altri e se stesso gli hanno inferto. Quindi il primo bacio che lei, io e chiunque altro abbiamo dato è certo accaduto una volta e in questo senso non ci appartiene più ora ma quel gesto è rimasto infisso nel nostro corpo –letteralmente- e quindi ci appartiene ancora nella forma di un engramma fisico e di un ricordo mentale.
(Anche di tutto questo parleremo –spero meglio- nel corso di fdm di quest’anno accademico).
agb
«Vorrei togliere al mondo il suo carattere straziante» (Nietzsche)
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