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martedì 26 novembre 2024 ore 18:20:11
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Cateno
2° Livello

Città: Regalbuto


169 Messaggi

Inserito il - 07/07/2004 : 20:01:45  Mostra Profilo Invia a Cateno un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
Eccomi di nuovo qua, dopo la parentesi esami. E stavolta in pieno possesso delle mie facoltà mentali (ammesso che alcune, quale il discernimento morale, non siano andate irrimediabilmente perdute). Dunque...

Questo intervento poteva essere una risposta a “Memoria corporea”, tuttavia preferisco proporlo come nuovo argomento perché tocca anche altri temi. Ma procediamo con ordine.

Il ricordo... Perché mai, leopardianamente, il vago e l’indefinito dovrebbero farci stare meglio? Perché mai la nostra immaginazione dovrebbe farci dimenticare la tristezza? Per risalire a questo chiediamoci una cosa semplice: cosa diciamo quando volontariamente ricordiamo con piacere un episodio della nostra vita? Diciamo questo: “com’era bello quel periodo!”. E perché “quel periodo” ci sembra bello?
Altra domanda: perché ci compiacciamo delle nostre immaginazioni o fantasie? Immaginiamo scene future della nostra vita e diciamo: “come sarebbe bello!”. E perché sarebbe bello?
Sempre procedendo con ordine (come sto diventando bravo!) distinguiamo due cose che però agiscono contemporaneamente: l’attesa o la pretesa di felicità da una parte e dall’altra l’umana mania di protagonismo. Dunque: nel ricordo io ero felice (presunta felicità nei ricordi), nelle mie fantasie sarò felice (attesa di felicità nelle proiezioni); per di più nel ricordo sono protagonista assoluto, il ricordo è mio, tutta la realtà del ricordo ruota attorno a me come mai accade nel presente, mentre nelle mie fantasie, è chiaro, creo io stesso la realtà, in modo esplicito, una realtà che per forza sarà fatta su misura per me. Nei ricordi sono felice e protagonista: felice perché protagonista, protagonista perché riesco a fare la mia propria volontà (la mia propria volontà è il ricordo stesso!) e con ciò raggiungo la felicità; nelle fantasie sono felice e protagonista per gli stessi, semmai ancora più evidenti, motivi. Ecco quanto simili sono fantasia e ricordo. Addirittura potrei definire le fantasie come ricordi del futuro. Ho un unico ostacolo: il corpo. Come conciliare fantasia e corpo? I ricordi incidono la mia pelle, avvolgono le mie membra, nutrono i miei organi. E le fantasie? Ebbene rispondo così: le fantasie lanciano il mio corpo oltre, gli permettono di vivere, di non arrestarsi al dato, di staccarsi dalla per certi versi molto vincolante memoria corporea e mentale del passato. V’è qualcosa di malato nei miei ragionamenti, lo so. É la malattia di chi ha dimenticato il presente; è la malattia di chi riesce solo a ricordare i ricordi, del passato o del futuro.


alice
1° Livello


Regione: Lithuania
Città: Vilnius


51 Messaggi

Inserito il - 07/07/2004 : 23:47:39  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di alice Invia a alice un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
E' da un po' che mi chiedo se Leopardi non abbia fottuto il cervello un po' a tutti noi(scusate l' incipit).
Capisco molto bene a cosa ti riferisci. Il passato ed il futuro hanno sempre qualcosa di vago e di magico; è come se il presente, con la sua tangibile concretezza non riuscisse a soddisfarci.
Ci è stato insegnato che la vita è sventura, che il piacer è figlio d' affanno e che solo il vago e l' indefinito possono darci vero e completo piacere per mezzo delle speranze e delle illusioni,due elementi che ammettono e sottintendono la loro essenza effimera, sebbene fondamentale.
Leopardi è eccezionale, condivido ogni virgola del suo pensiero.
Sono nata leopardiana da prima di conoscerlo e lo vivo sempre.
Ma non basta.
Per quanto la sua visione sia bella, e talmente malinconica e angosciante da risultare allettante, bisogna avere il coraggio di rifiutarla e cercare altro.
Io ancora non trovo nulla.
E penso.E non riesco a vedere altro che non sia lui. E mi chiedo se Leopardi non abbia fottuto il cervello a tutti noi(scusate la chiusura).

L' essenza della Bruttura si trova nella faccia della gente.
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Biuso
Amministratore

Città: Catania/Milano


2900 Messaggi

Inserito il - 08/07/2004 : 18:50:51  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di Biuso Invia a Biuso un Messaggio Privato  Rispondi Quotando
…ma forse anche Leopardi è stato fottuto dalla critica letteraria, che solo di rado ha compreso quanta vita, quanta forza ci sia in lui e nel suo pensiero.

Questo filosofo condivide con Byron, Schopenhauer, Cioran, quel detto del Qohèlet secondo cui il crescere del sapere è anche crescita del dolore. E tuttavia Leopardi distingue all’interno del genere umano dei veri e propri livelli di valore, il cui criterio di differenziazione è dato dalla coscienza del dolore. Per quanto negativa, questa rimane una prova di nobiltà rispetto alle masse stolte che forse soffrono meno degli individui consapevoli ma sono anche assolutamente incapaci di comprendere ciò che è e ciò che accade. Contro la mediocrità, contro la rinuncia per debolezza ai progetti più degni, contro il conformismo delle menti, le Operette morali sono sempre esplicite e durissime.

Il contributo di questo poeta alla filosofia è sempre serio e consistente. L’ontologia leopardiana, infatti, formula un’articolata critica all’Idealismo e alla sua identificazione di ciò che è con ciò che dovrebbe essere, di Reale e Razionale. Tanto più che lo scrittore è perfettamente consapevole della propria strategia ermeneutica e dei suoi fini e rifiuta con grande lucidità il riduzionismo biografico che vorrebbe fare delle sue opere la mera conseguenza dei propri malanni: «e sentendo poi (...) dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso (...) poi tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi». A chi gli vorrebbe negare la qualità teoretica e l’oggettività dell’analisi, Leopardi-Tristano così risponde: «se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (entrambe le citazioni dal Dialogo di Tristano e di un amico ).

In realtà, Leopardi si inserisce in quella linea della filosofia europea che dai Greci a Spinoza e a Heidegger sottolinea la finitudine dell’ente uomo, il suo essere effimero in un mondo che si muove e vive in assoluta indipendenza rispetto alle sue parti:

Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali
(La Ginestra, vv. 314-316)

Leopardi arriva a comprendere la necessità dell’essere e quindi –in qualche modo- ad accettarne le manifestazioni, per quanto dolorose possano essere per noi. Il rigore del pensare leopardiano, la tenacia della sua ricerca, la complessità delle fonti e delle conseguenze, dovrebbero indurre ad abbandonare finalmente il luogo comune biografico che fa discendere tutto questo da alcune vicende private. Molti –e forse tutti- sono gli esseri umani che soffrono per ragioni di ambiente, di affetti, di sventure personali. Non è da qui, però, che nasce la poesia e tanto meno la riflessione. Leopardi non fu un uomo che soffriva ma una mente che pensava con una lucidità davvero spietata. È questo sguardo sul mondo che, soprattutto, gli dobbiamo, è questo sguardo –cara Alice- che non ci fotte ma ci libera.

agb
verso la luce -l'ultimo tuo movimento;
un giubilo di conoscenza -l'ultimo tuo accento
(Nietzsche)
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