V I S U A L I Z Z A D I S C U S S I O N E |
iuris84 |
Inserito il - 03/09/2007 : 19:30:07 Vorrei segnalare, con alcune considerazioni, un articolo apparso sull'ultimo numero della rivista "Bioetica", dal titolo "Il diritto al (mio) suicidio", redatto da un magistrato. Innanzitutto, il titolo: l'aggettivo "mio", prudentemente messo fra parentesi, sembra non tenere in considerazione il carattere tipicamente astratto e generale della legge, almeno in quanto legge per tutti. Il sostantivo "suicidio"- inserito per indicare tanto l'eutanasia quanto il suicidio assistito quanto altre simili pratiche- sembra appartenere più al lessico storico fattuale, che a quello giuridico e, quindi, concettuale. Ma andiamo al testo. "Che si tratti di un diritto è dimostrabile sotto diversi punti di vista" (cit.), in particolare sotto il profilo giuridico, sotto il profilo razionale e sotto il profilo etico. Il primo: "Assodato che il suicidio non è sottoposto a divieti legali, si attiva la regola giuridica (quale?, n. d. r.) secondo cui ciò che non è vietato è permesso" (cit.); da una semplice liceità si arriva ad un diritto soggettivo (che è la posizione più fortemente tutelata dall'ordinamento) e, con un salto logico,ad una libertà tutelata dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali: insomma, un diritto dell'uomo, come si dice oggi. La domanda che può porsi è: "cosa giustifica tali passaggi?"; se volete, "perchè?" Il secondo: "Il totale rispetto della considerazione religiosa del problema comporta che essa attenga al singolo individuo, e non possa essere imposta [...] a chi ritiene di non aderire ad un determinato credo" (cit.). Questa motivazione appare assai convincente alla luce dei principi del moderno Stato liberale. Il terzo:"Se una fondamentale regola morale impone di non far male agli altri, l'obiezione riguarda i possibili effetti negativi del suicidio sulle relazioni di parentela [...] Occorre fare una valutazione in termini di costi e benefici" (cit.) Se si utilizzano - come qui mi pare accada- i parametri dell'etica classica, si tiene conto solo degli atti cd. "transitivi", non di quelli cd. "immanenti". Ancora, la valutazione costi- benefici (anche a carico dei familiari, i quali potrebbero sopportare, e anzi spesso ne rimangono ignari, situazioni di sofferenza personale) è una chiave di lettura specificamente economica. Dispiace che non si accenni nel contributo - per il quale ringrazio, perchè serve a non far inabissare un' importante problematica del nostro tempo- ad un potenziamento dell'assistenza a queste gravissime situazioni di disagio, sicuramente sempre insufficiente, ma almeno contenutiva (anche se si sarà salvata una sola vita e la si sarà resa migliore, sarà comunque un successo della società). Nel testo sembra quasi che l'aiuto al suicidio abbia come effetto sociale i vantaggi di "strumenti puliti, di mezzi che escludano il ricorso a sistemi da bassa macelleria o da cronaca nera" (è pregevole che si voglia risolvere il problema dell'igiene delle nostre città, o forse superare i traumi che subiamo ogni giorno assistendo ai notiziari tv; come se non ci fossero anche efferati omicidi o altro).
Per chi fosse interessato suggerisco la lettura di F. D'Agostino, "Parole di Bioetica", Giappichelli.
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