V I S U A L I Z Z A D I S C U S S I O N E |
Cateno |
Inserito il - 19/02/2005 : 10:49:13 Nella classifica dei libri che mi hanno cambiato la vita devo aggiungere, ponendolo al primo posto ex equo con “Così parlo Zarathustra”, “L’unico e la sua proprietà” di Max Stirner. Nietzsche avrebbe detto che a parte Hobbes non ha mai letto niente di così logico e consequenziale e Marx ed Engels diedero sfogo (dopo l’iniziale entusiasmo di Engels ricondotto ai ranghi dal compagno) al loro astio verso “L’unico” ed il “Santo” Max in ben circa 300 pagine de “L’ideologia tedesca”. Per il resto, per lo più, il silenzio. Se in questo libro non vi fosse nulla o vi fosse ben poco, non si potrebbero spiegare né il fanatismo urlato che suscita in alcuni, né il tacito confronto e continuo attingere di altri (ad es. Nietzsche), tanto meno il silenzio volto all’oblio di certi altri.
Se qualcuno vuole essere anticonformista oppure, come si dice, controcorrente o in ultima analisi dissacratore o polemico (da Pòlemos) bisogna che lo sia più nella sostanza, nel contenuto che nella forma. Stirner sembra cogliere la potente dissoluzione possibile solo dall’interno: distrugge tutto tranne che se stesso, utilizzando innanzi tutto il linguaggio dell’idealismo imperante di quel periodo, siamo nel 1844, poi utilizzando spesso procedimenti logici o giochi di parola semplici ma che spalancano cancelli oltre il limite delle strade fino ad allora (e finora!) percorse. Il libro di Stirner è compatto, vi sono continui rimandi tra una parte e l’altra e vi è, oserei dire, una sorta di parallelismo tra ontogenesi (Una vita d’uomo, Parte prima, I) e filogenesi (Uomini del tempo antico e moderno, Parte prima, II). A mio avviso è impossibile riassumere questo libro, perciò il mio non sarà un riassunto. Quasi all’inizio v’è una delle chiavi di volte del testo: “Vincere o soccombere: fra queste due possibilità oscilla il destino della lotta. Il vincitore diventa il padrone, il vinto il suddito: il primo esercita la sovranità e i <>, il secondo adempie, rispettoso e riverente, i <>”. Ebbene, è una cosa risaputa, direte. A parte il fatto che l’abilità di Stirner consiste anche nel far rilucere ciò che è ovvio, ciò che si comprende da sé (come preziosamente ci ha insegnato il prof. Raciti), egli dirà in seguito che ciò che ci domina, ciò di fronte a cui siamo impotenti è il sacro. Null’altro. Il timore è la molla di tutto, ma il timore potrebbe essere anche superato, lo fa già il bambino crescendo; ma quando l’oggetto che suscita timore è anche venerato, bisogna onorarlo, ecco che il gioco è fatto. Quando agiamo disinteressatamente, lì comincia la religione. La religione consiste nel ricercare in un aldilà interiore o esteriore qualcosa come il “vero me stesso”: lo spirito, dio, l’umanità, la morale, ecc. E’ in virtù e al fine di questo “vero me stesso” che agisco. Avviene una sorta di sdoppiamento tra ciò che in me è terreno, carnale, “inumano”, cattivo e ciò che invece in me è celeste, spirituale, “umano”, buono. Che fare? Una rivoluzione? No, semmai una ribellione (Empörung), una sollevazione. Le rivoluzioni sono state finora riformiste: abbattevano un cielo per costruirne un altro, dileguavano un ordine per istituirne un altro, uno Stato con un altro, ecc. Bisogna ribellarsi: scrollarsi di dosso ogni dominio per appropriarsi di tutto. Ora, io non devo essere proprietà di qualcuno o qualcosa; semmai al contrario: Striner giunge a esclamare “Il mondo è mia proprietà”; certo, dirà in seguito che questa frase è vuota poiché esprime solo il mio essermi svincolato dal sacro (sacra è la proprietà altrui), tuttavia è molto indicativa. Il fine che Stirner persegue non è la libertà, infatti afferma: “Io ti augura qualcosa di più che la libertà. Ti auguro di essere libero da ciò che non vuoi e di avere ciò che vuoi”. La libertà è vuota; essere libero di qualcosa significa essersene sbarazzato: è libero dal mal di testa, significa che se ne è sbarazzato. Beh, mi sembra che dovrei scrivere mille cose, ma questo non è un saggio e nemmeno un articolo. Per non dilungarmi giungiamo all’unico. “Io non sono un io accanto ad altri io, bensì l’io esclusivo: io sono unico. Perciò anche i miei bisogni sono unici e così pure le mie azioni, insomma tutto di me è unico. E io mi approprio di tutto solo in quanto sono questo io unico, così come agisco e mi sviluppo solo in quanto tale: io non mi sviluppo in quanto uomo e non sviluppo l’uomo, ma, in quanto sono io, sviluppo – me stesso. Questo è il senso dell’ – unico.” Altrove scrive: “Io sono non soltanto astrazione, bensì il tutto in tutto, quindi anche l’astrazione o il niente, io sono tutto e niente, io non sono un puro pensiero, ma sono però pieno di pensieri, un mondo di pensieri. [...] L’essere viene superato, in me, esattamente come il pensiero. E’ mio così come il pensiero è mio”. L’unico è Stirner; l’unico sono io; l’unico è Tizio e l’unico è Caio. Forse che così giungiamo ad una astrazione, una universalizzazione, una concettualizzazione dell’unico facendone l’Unico? No. Ognuno è un io esclusivo. Ma anche qui, non si fa di quest’io un universale, una idea? Ancora no: quest’io è un io singolo, un io corporale, un unico che in quanto unico è l’unico. Ma così non prendiamo il nome per la cosa? Ammesso che faccia differenza e non importino entrambi allo stesso modo, io non sono un “io accanto ad altri io: io sono unico”. Questo che mi sta di fronte è un oggetto che, detto in tutta la sua crudezza, io utilizzo. Per me è una cosa. Però egli può dire: io sono l’unico e fare di me quello che io faccio con lui, utilizzarmi. Appare barbaro ma... Anche a proposito dell’amore, facendo un esempio, Stirner dice: “L’amore dell’egoista sgorga dall’interesse personale, scorre nel letto dell’interesse personale e sfocia di nuovo nell’interesse personale”. Io ti amo perché mi fai stare bene, mi servi, ti utilizzo, il mio amore per te è interessato. Con ciò non voglio dire che non mi privo di un mio piacere perché questo fa piacere a te oppure che io non sacrifichi qualcosa di mio per te. Anzi, al contrario: proprio perché la tua felicità è la mia io per te sono pronto a tutto. Il tuo sorriso mi fa stare bene. L’amore disinteressato è un’ipocrisia o un non-senso. Se io soffro a causa tua, con te non ci sto. Anche nel caso in cui tu mi rendi triste o mi maltratti, se ti vengo dietro è perché sento che tu mi fai felice, cioè mi servi. D’altro canto meglio essere in possesso dell’amore che farsi possedere da lui. Dovrei forse amarti in nome di qualcosa a me estraneo? In nome della tua e non della mia felicità? Per un sacro vincolo quale il matrimonio? In nome di un qualche umanitarismo? In nome di dio? Ma così è come se io non amassi te ma una di queste cose tramite te o addirittura qualcos’altro da me ti amasse utilizzandomi come mezzo. No, io ti amo perché mi servi. Il libro di Stirner mi ha procurato un godimento, un senso di pienezza e di potenza incredibile. Certo, la sua lettura può risultare pericolosa. Ma quale lettura non lo è? Solo quella di libri insulsi. Se siete disposti a calarvi in questo buco nero del pensiero (“niente deve andare perduto”) ne uscirete, forse, in un probabile buco bianco: avrete convertito la materia in anti-materia, avrete inghiottito luce, stravolto le leggi della fisica (o della filosofia?), avrete fondato la vostra causa su nulla. In compenso godrete di voi stessi. Scusate la lunghezza dell’intervento.
L'esistenza è un episodio del nulla (Schopenhauer) |
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