V I S U A L I Z Z A D I S C U S S I O N E |
digiu |
Inserito il - 30/07/2008 : 17:53:07 Un libro estivo, per il solleone.
E scusate la prolissità...
--------------------- Re in Fuga. La leggenda di Bobby Fischer
Un taglio secco, giornalistico cucito sopra la latteratura. Un minuscolo esperimento narrativo inscritto in quello che Wu Ming 1 ha recentemente definito New Italian Epic e che rappresenta uno scarto oggettivo all'interno dei generi narrativi classici. Basterebbe questo, e una scrittura capace di alternare e fondere diversi punti di vista e farli parlare (il narratore, il protagonista, gli oggetti), a smentire chi pensi che si tratti dell'ennesimo libro sul famigerato Bobby Fischer e su quel lontano ricordo chiamato guerra fredda, simbolicamente declinato sui due fronti opposti di una scacchiera. Non è solo questo, infatti, il romanzo di Vittorio Giacopini. Fin dal sottotitolo, il testo avverte il lettore che vi si narrerà della leggenda. E come nelle leggende, pur restando preminente una certa aderenza ai personaggi realmente esistiti, sopra si può ricamare a piacimento. Re in fuga, dunque, prende le mosse proprio da una splendida invenzione: una figura evocativa come quella di Bobby Fischer calata nella realtà di un'alba islandese, ossia nello scenario di quell'ultimo paese che lo salvò dal baratro, riconoscendogli la cittadinanza nel 2006. L'anno prima, l'ex campione era stato arrestato all'aeroporto di Tokyo e in seguito aveva subìto una detenzione di 11 mesi, nell'attesa di essere estradato negli Stati Uniti. Un giro di vite inspiegabile da parte di George W. Bush jr, allora impantanato nella sua fantomatica caccia a Osama Bin Laden; un giro di vite perfino più incomprensibile se si pensa che Fischer nel 2006 è poco più che un uomo vecchio e dimenticato e che lungo un decennio ha girato il mondo indisturbato, ignorato in America e altrove. Tutt'a un tratto invece - e questa sarà la terza svolta della sua vita, Fischer diventa per gli States un nemico, reo secondo l'accusa d'aver giocato una partita a scacchi nell'ex Jugoslavia di Milosevic, in aperta violazione dell'embargo allora in vigore. Sarà dunque l'Islanda, paradossalmente, a doverlo trarre fuori dal patetico impiccio. Così come il mitico sovente s'intreccia col patetico, altrettanto esplicitamente i capitoli della vita dell'ex campione del mondo tante volte, nell'arco di un'esistenza sola, hanno finito per intrecciarsi fitti insieme ai fili degli equilibri internazionali e della politica estera a stelle e strisce. Ciò è avvenuto forse per la sua indole profondamente anarchica, o per una malcelata smania di protagonismo, tuttavia qualcosa di vero nella sua lotta, e nelle sue fughe, c'era. L'incubo cesserà, infine, nel 2007, quando dalle colonne di un giornale islandese si ammetterà il suo lato paranoico, laido, antisemita e antiamericano, con ciò non scompagnato da una affermazione stringente: "non è il signor Fischer ad aver bombardato popoli, avanzato guerre, sterminato civili inermi, cosa che al contrario non si può dire dello stato di Israele e degli Stati Uniti, contro i quali egli si batte". Un riconoscimento che gli vale il passaporto e una nuova libertà, un nuovo esilio oppure un lento riflusso precedente una prossima fuga.
Esordisce così questo romanzo. Che non è un romanzo, né un saggio, né una biografia accurata. Là, in una baia di quell'isola sperduta e lontana, ricordata solo per i fatti del 72, Bobby la leggenda vivente degli scacchi osserva il pallido rosa rarefatto dell'aria. In questo paesaggio monocromatico come quello a lui tanto caro delle sessantaquattro caselle egli scorge ciò che ha sempre desiderato: il nulla, la quiete, la pura libertà di bastare a se stessi affrancati dai confini, dalle guerre, dalle cittadinanze, dalle onorificenze fasulle. La sua è una fredda autodeterminazione. Bobby Fischer coltiva il solo desiderio di giocare a scacchi: voglio solo giocare a scacchi, un enunciato che tradisce una volontà ostinata e una necessità di autonomia tali da rasentare l'autismo. Poi il racconto si dipana, dalle origini. Da Brooklyn, dalla povertà degli emigranti, dalla paternità contesa e mai riconosciuta di un ebreo giunto in America, fino al precoce successo: Robert James Fischer a soli 14 anni diviene il più giovane Grande Maestro della storia e all'età di 29 strappa lo scettro del mondo a Boris Spasskij e alla macchina sovietica che lo sosteneva. Col supporto di documenti, lettere, fotografie, testimonianze e mezze verità, Giacopini tenta di allestire una sorta di splendore epico. Un discorso profondamente inserito in quel dibattito italiano che Wu Ming 1 successivamente ha attivato dalle colonne di Repubblica e poi ampliato nel suo saggio di 36 pagine che circola liberamente in rete. Anche in questo romanzo, dunque, si fa largo l'urgenza di uno stories telling di più ampio respiro: almeno nelle intenzioni capace di trascendere il confine minimo dell'individuo protagonista, per ordire una trama più complessa in cui possano confluire la Storia e il Tempo. Succede così che da una fotografia bianco e nero, si ipotizza un intreccio più immaginifico che reale: il fotogramma di un istante decisivo di una delle prime partite di Bobby, ad esempio, concede - anche se soltanto nell'universo delle possibilità - l'incontro con il giovane Stanley Kubrick, allora fotografo. Poi a fare capolino è il controverso rapporto coi russi, il cui luogo comune sull'inimicizia reciproca era già stato ampiamente sfatato in quel testo splendido, a metà strada tra documentario giornalistico e manuale di scacchi, titolato "I russi contro Fischer" di Dmitrij Plisetskij e Sergej Voronkov, in Italia edito da Caissa nel 2003 e vincitore di un mucchio di premi.
Vi è insita l'abilità di sintesi e insieme ossimoricamente il dono dell'iperbole, forse per questa ragione Re in fuga, nel maggio scorso, è riuscito a distinguersi a dispetto di un panorama letterario piuttosto stagnante. Non è facile spiegare quali che siano i meriti da accreditare al libro. Non è facile spiegare neppure l'operazione creativa che Giacopini stesso, in una intervista, lascia cadere come un tentativo onesto di ripercorrere una storia e manometterla, senza perciò condirla di paccottiglia e tragedie a buon mercato. Un merito però a mio avviso va riconosciuto all'opera e al suo autore: oltre all'aver ripescato una figura pressoché dissolta nella nebbia dei simboli e degli schemi, e per questo inconoscibile, ha reso magistralmente l'essenza di un personaggio che era tutt'uno col suo gioco. Fin dal prologo, Re in fuga si dimostra fedele al suo tema, fedele perfino quando intenda volontariamente mantenersi distante. In questo esso rappresenta un'urgenza, un testo sollecito, frutto di una passione personale e ad ogni modo assai bene intermediata. Sicché, se perfino la brillante eleganza dell'incipit via via si fa sempre più stiracchiata e ripetitiva, qualche pagina memorabile resta; e la riflessione in epilogo suggella il senso di una biografia che non si interrompe con la morte: "E' stato e non è più, senza uscire di scena". Nient'altro, è vero, potrà spingersi più lontano di questa semplice consapevolezza.
grazie a chi è arrivato fin qui...
digiu.
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