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 La prigioniera

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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
Biuso Inserito il - 06/02/2008 : 11:43:36
L’ossessiva gelosia, l’impossibilità di conoscere e quindi di possedere l’Altro, l’amore come teatro della crudeltà, la verità della letteratura e lo splendore della parola…sono alcuni dei temi della Prigioniera, il libro del mese.






agb
«Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi» (Mt., 7,6)
1   U L T I M E    R I S P O S T E    (in alto le più recenti)
Cateno Inserito il - 03/05/2008 : 10:27:17
L’atmosfera allucinata, onirica, a tratti irreale fa sì che La prigioniera si configuri come romanzo dell’abitudine; un’abitudine che confonde i ricordi, che fa apparire gli avvenimenti sempre uguali e diversi per tutti e per ciascuno («l’universo è vero per tutti noi e dissimile per ciascuno», M. Proust, La prigioniera, BUR, Milano 1991, pag. 343), che i giorni si sovrappongano, che scatti il meccanismo della trappola, della gabbia, per cui si potrebbe parlare non di “prigioniera”, bensì di prigionieri.
Eppure tale irrealtà è quanto di più reale ci sia; come sempre Proust ci mostra le trame dei giorni, la realtà eppur contuttociò senza essere realista, giacché mette in opera uno dei segreti dell’esistenza, ossia che questa è sempre declinata in prima persona, non è mai oggettiva, ma di un soggetto che ingloba gli oggetti.
Ciò si spande attraverso frasi che paiono frammenti di sogno, di interi periodi o situazioni che a volte occorrono quasi identici a distanza di poche decine di pagine; e in tutto questo tra le parole che ricorrono più di frequente v’è senza dubbio “abitudine”. Il ricordo e l’attesa del futuro vi condividono l’incertezza, il dubbio, finanche la menzogna, giacché «sembra che gli avvenimenti siano più vasti del momento in cui accadono e non possono esservi contenuti interamente. Certo debordano verso l’avvenire per il ricordo che ne serbiamo, ma domandano un posto anche al tempo che li precede. Si dirà, forse, che allora non li vediamo quali saranno, ma anche nel ricordo non vengono forse modificati?» (pp. 583-584).
La trama del romanzo è scarna; essa procede piuttosto a sbalzi, a narrazioni di singoli episodi, di fantasie, di frammenti quotidiani che torturano la gelosia di Marcel. Tra la prima e l’ultima parte, le quali mostrano da vicino la prigionia e le angosce dell’amore, si incastona la movimentata serata in casa Verdurin, dove assistiamo a tre mirabili prodigi: l’intuire (intuizione che per adesso sarà momentanea e fugace) che il senso dell’esistenza è rintracciabile nell’arte; lo spessore umano e sorprendente che acquista il barone de Charlus; la doppiezza della mente umana, capace in poche ore e nella stessa persona di passare dalle malvagità più cupe e interessate a un atto di generosità insospettabile e franco, tant’è che lo stesso autore ci ammonisce: «non bisogna mai avercela con le persone, né mai giudicarle in base al ricordo di una cattiveria compiuta, in quanto non possiamo sapere tutto ciò che di buono in altri momenti la loro anima ha potuto volere sinceramente e mettere in atto. [Perché] l’anima è più ricca di quel che si crede, possiede altre forme che anche esse ritorneranno e di cui noi rifiutiamo la dolcezza a causa del cattivo comportamento che quella persona ha tenuto» (pp. 499-500).
Ma a dominare l’intero romanzo è la passione per Albertine. Il meraviglioso incipit in cui si effonde il contrappunto dei rumori di strada, della luce, delle voci e che si insinua nella mente appena svegliatasi di Marcel e gli fa confessare: «del resto, in quel periodo, fu soprattutto dalla mia camera che io percepii la vita esterna» (pag. 133), ebbene tutto questo preannuncia la meravigliosa ed al contempo asfissiante presenza di Albertine che è andata a vivere col protagonista. Tutta la narrazione è un tentativo di rendere appieno le angosce, la gelosia, la passione, la stanchezza che è l’amore; ma l’ammissione più profonda riguarda lo svelamento di ciò che è in gioco nell’amore stesso, ossia qualcosa che riguarda l’intera esistenza: penetrare la mente di un’altra persona. Non a caso l’amore di Marcel trova serenità solo quando ammira la bellezza addormentata di Albertine, perché è allora che appare «animata soltanto dalla vita inconsapevole dei vegetali, degli alberi, vita più diversa dalla mia, più estranea e che tuttavia mi apparteneva di più. Il suo io non sfuggiva ogni momento […] avevo l’impressione di possederla interamente, impressione che non avevo mai quando era sveglia.» (pag. 204).
Ma quando ormai la rottura sarà inevitabile, quando Albertine ha acquisito una docilità, un’obbedienza che spaventa ma che al contempo mostra il suo contrario nell’apertura notturna di una finestra, gesto che infrange una convenzione della convivenza, quando sembra più sottomessa ma forse proprio perciò più sfuggente, Marcel ci fa comprendere quello che a mio avviso è lo smacco dell’esistenza, l’invalicabilità delle nostre vite e che forse solo la creazione artistica riesce ad oltrepassare: l’avere parte nella mente di un altro, vivere un’estasi, essere in un’altra persona: «quali statue, quali quadri a lungo cercati e alla fine posseduti o, nella migliore delle ipotesi, contemplati semplicemente senza essere interessato all’acquisto, mi avrebbero […] consentito l’accesso a quell’uscita fuori di se stessi, a quella via di comunicazione privata che sbocca sulla strada maestra dove passa ciò che conosciamo soltanto dal giorno in cui ne abbiamo sofferto: la vita degli altri?». (pag. 568).
In questa impossibilità sta l’amore.
E quando, dopo tante volte avere affermato che la ama, ed altrettante che non la ama, Marcel pare per l’ennesima volta decidersi a lasciare Albertine, a cacciarla, a mostrarle che non teme di perderla (ma forse solo per legarla di più a sé), sarà invece ella stessa ad abbandonare la casa del protagonista, andando via di mattina, senza preavviso; allora avviene che Marcel, convinto che ormai Albertine gli fosse indifferente, scopra di quanto si ingannava: «il respirò mi mancò, tenni il mio cuore con le mani rese molli da uno strano sudore» (pag. 599).
Se il mondo è fatto di spazio e tempo, allora perdere un amore è perdere la sensibilità del mondo, giacché «l’amore è lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore» (pag. 566).


Finché non lo fai tuo,/ questo "muori e diventa",/ non sei che uno straniero ottenebrato/ sopra la terra scura. (J. W. Goethe)

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