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V I S U A L I Z Z A    D I S C U S S I O N E
Lisandra Inserito il - 27/05/2006 : 18:52:47
Salve è la prima volta che entro in cybergsofia, ma spero possiate aiutarmi.
Vi siete mai chiesti che ruolo svolgano e abbiano svolto il caso, il destino e la fortuna nella letteratura e nella vita? Io si, e tale argomento sarà oggetto di uno dei paragrafi della mia tesi.
Testo base sarà l'opera di un tale Straparola, autore di una raccolta di fiabe e novelle della seconda metà del Cinquecento.
Parto dal presupposto che ci sono state fasi storico-letterarie in cui domande del tipo: com' è potuto accadere, strano scherzo del destino, che strano caso, perché proprio a lui non avevano ragion d'essere. Nella letteratura greca, ad esempio, l'immanenza, la presenza della divinità spiegava ogni evento. Nel corso dei secoli tuttavia tali domande non hanno più trovato risposte e sono state dirottate altrove, ad esempio nella religione.Sapreste consigliarmi qualche testo relativo a tale argomento, magari relativo al cinquecento?
Grazie, a presto!



Modificato da - lisandra il 30/05/2006 12:05:32

Modificato da - lisandra il 30/05/2006 12:07:44
2   U L T I M E    R I S P O S T E    (in alto le più recenti)
Stanley Inserito il - 27/05/2006 : 20:37:16
Per quanto riguarda il tema del libero arbitrio molte sono le produzioni del XVI secolo,soprattutto di stampo religioso.Molto interessante a questo proposito può essere il "De libero arbitrio" di Erasmo da Rotterdam con alcuni riferimenti al luteranesimo e alla sua dottrina al riguardo.Parlando del libero arbotrio non si può non parlare del determinismo,ecco quindi un link dove puoi avere maggiori informazioni soprattutto inerenti il periodo storico che t'interessa: http://www.swif.uniba.it/lei/filmod/N1/determinazione.html.Nel frattempo farò qualke altra rocerca nella speranza di poterti essere d'aiuto.Buon lavoro

Stanley
Biuso Inserito il - 27/05/2006 : 20:16:17
Giovan Francesco Straparola e le sue Tredici piacevoli notti? Questo sì che è un argomento da tesi di laurea!

Le indicazioni bibliografiche potrebbero essere trovate in un buon libro su Machiavelli, il quale –come si sa- nel Principe affronta direttamente e a fondo il tema dei rapporti tra fortuna e virtù.

Nel merito dell’argomento, le trascrivo qui alcuni brani dal mio Antropologia e Filosofia (Guida, Napoli 2000; dalle pagine 112-113 e 101-102 ). Mi scuso per l’autocitazione ma non saprei dire in altro modo che cosa penso a proposito del tema (assolutamente importante) da lei proposto. Se vuole, utilizzi pure queste righe!

«La necessità sottratta alla morale e al fatalismo può paradossalmente configurarsi come suprema possibilità di una casualità innocente e di una creatività liberamente espandentesi perché conscia di essere elemento di un gioco più vasto. Il rigore delle regole è la condizione indispensabile di qualsiasi attività ludica. La necessità apre il gioco del caso e dell'invenzione perché con essa non esiste più un rango di valori nelle cose. Alla rigida gerarchia morale si sostituisce la creazione incessante di forme etiche e di scale assiologiche con cui danzare la vita. La necessità si trasforma in una nuova libertà.

(…)

Né fini né volontà -così come ce li immaginiamo- hanno una reale esistenza, ma anche il caso e l'imprevedibile sono il frutto apparente dell'unica struttura effettiva del mondo: la necessità, intesa non come fatalismo ma in quanto complessa interazione fra l'agire individuale e le condizioni oggettive dell'accadere. Volere la necessità, farsi attivamente trasportare nel gioco necessario del nostro volere, significa inserirsi nella struttura ontologica più nascosta e innalzarsi così al di sopra di essa, tramite la consapevolezza della sua inoltrepassabilità. Altrimenti si rimane come uccelli presi nel vischio che più si dibattono e più consolidano la loro prigionia.

(…)

Ma si vive tutti dentro l’invincibile muraglia della necessità. L’urgenza della felicità è per noi una sorta di istinto, che rende assai raro un vero, integrale, dolore anche se la pena non ci lascia mai. In ogni caso, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento. L’inevitabilità del morire è solo l’estrema e definitiva fra le tante prove possibili della necessità. Crederci liberi nelle nostre scelte, azioni, decisioni è naturale e forse indispensabile ma è falso. Se osserviamo la ragnatela innumerevole degli eventi, possiamo renderci conto che la libertà è un'illusione poiché eventi lontanissimi nello spazio e nel tempo sono quelli che determinano questo stesso mio istante.
La forma più impalpabile della condizione umana è l’intrico inestricabile nel quale senza accorgercene stiamo avvolti. Dalla profondità del passato, dal frenetico farsi degli eventi, da ogni gesto di chiunque, scaturiscono una serie di effetti inconoscibili e innumerabili, ignoti perché incalcolabili, di cui questo mio gesto, adesso, la decisione che ho appena preso, non sono altro che l’inevitabile approdo. Ho bisogno di credere di aver stabilito io ciò che la trama sterminata delle azioni ha prodotto. Questo fantasma di libertà è lo scudo che oppongo al macigno delle circostanze per difendermi da un peso sotto il quale la mia dignità di essere umano rimarrebbe schiacciata. So però con certezza che prima o poi quest’armatura non potrà più proteggermi di fronte all’ultima circostanza e chiamerò allora morire quello che non sarà nient’altro che l’ennesima cifra aggiunta al numero incalcolabile dei fatti.
La contingenza è un'illusione della mente umana. Nel tutto domina la necessità. Il finalismo è uno dei maggiori errori gnoseologici, è una forma ingenua di soggettivismo che pretende porre l'universo a esclusivo utilizzo della specie umana. Le nozioni di perfezione-imperfezione, bene-male, giusto-ingiusto, sono scaturite da questo sentire sé come criterio del tutto. La filosofia è la rimozione di tale prospettiva. Nella natura non c'è vizio, né imperfezione, né contingenza, né male. Liberarsi da questi parametri è una delle condizioni per comprendere il reale».


agb
«Nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere»
(Spinoza)

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